DON AURELIO PULLA: MAESTRO DI VITA TRA UMILTA’ E AUDACIA (Pietro Barbiero)

16.11.2014 23:04

La prima immagine che ho di don Aurelio è associata ad un episodio non proprio

piacevole: un giovane prete in abito talare che si adopera, con buona determinazione,

a tirarmi le orecchie.

Siamo alla fine anni ‘50: nella grande casa parrocchiale c’era una ringhiera

posta a protezione del dislivello di almeno una decina di metri tra il piano terra

e quello sottostante cui si accedeva con una ripida scalinata e noi, poco più

che bambini, utilizzavamo quella ringhiera come attrezzo ginnico per sporgerci

e dondolare nel vuoto confidando nella sola forza delle mani e delle braccia per

non cadere. Prove di coraggio e sconsideratezza che appartengono all’incoscienza

dei piccoli. All’improvviso appare don Aurelio con conseguente fuggifuggi.

Io, il meno lesto o il più impacciato, resto appeso alla ringhiera.

Ricordo, dopo avermi aiutato a tornare indietro con calma (data la situazione è

probabile che fosse più spaventato di me), il suo fermo invito a non ripetere più

quel gioco stupido. Il tutto accompagnato da una dolorosa e meritata tirata

d’orecchi. Non c’era ira nella voce di quel giovane prete, né violenza nel gesto

ovviamente, ma solo una sincera preoccupazione per il pericolo corso da noi.

Un piccolo episodio cristallizzato nella mia memoria i cui esiti evidenziavano le

peculiarità di don Aurelio: dolcezza, rigore necessario, comprensione.

Avrei avuto altre conferme negli anni successivi dell’essere speciale di quest’uomo:

curiosità, disponibilità all’ascolto e al dialogo su temi che toccavano

varie sensibilità non sempre in linea con le posizioni della Chiesa. Una disponibilità

e una vocazione al dialogo che lo avrebbe portato quasi naturalmente ad

avvicinarsi e ad essere protagonista nel movimento dei focolari fondato da

Chiara Lubich, ispirato alla dimensione quotidiana e comunitaria della carità

fraterna che si poneva l’obbiettivo del raggiungimento dell’unità fra generazioni,

fra religioni e culture diverse. All’interno del movimento dei focolari don

Aurelio troverà il naturale modo di darsi completamente agli altri e di vivere il

sacerdozio come vera comunione. L’esser semplicemente un prete in un piccolo

paese e adempiere con impegno e devozione al proprio mandato non poteva

bastare. Ma tutto ciò era già scritto nei suoi primi anni di sacerdozio a Jelsi. La

sua vitalità e il suo attivismo hanno avuto effetti salutari in una comunità fino

ad allora governata senza scosse da chi incarnava prima di lui la figura del buon

Parroco tradizionale. Cambiano i tempi, cambiano gli uomini. Don Aurelio e noi adolescenti siamo

cresciuti in mezzo ad accelerazioni improvvise nella società civile. Pur con tempi

e cautele diversi, erano anni di grande fermento anche nella Chiesa attorno al

grande dibattito che si stava aprendo con il Concilio fortemente voluto da Papa

Giovanni XXIII.

Gli echi di tali cambiamenti arrivavano smorzati e confusi. Erano gli anni dei

movimenti giovanili con le loro inquietudini e la loro voglia di rompere schemi

consolidati, il movimento pacifista, gli anni della contestazione, della musica

angloamericana, della musica dei cantautori italiani. Il boom economico degli

anni ’60 (molto attenuato) raggiungeva anche la nostra comunità.

Come si doveva interagire con tali cambiamenti? Molti si sono arroccati in un

pregiudiziale conservatorismo, per semplice timore di veder messe in discussione

certezze che si credevano acquisite oppure perché non sufficientemente

attrezzati dal punto di vista culturale.

Don Aurelio invece con riferimento al ruolo che rivestiva ha semplicemente intercettato

i cambiamenti perché era un uomo del proprio tempo, viveva nella

contemporaneità e come quegli intellettuali illuminati che fiutavano in anticipo

i grandi sommovimenti nella società, li ha in un certo senso precorsi.

Ciò non vuol dire che accettava acriticamente tutto quello che la ventata di

“modernità” ha portato e generato con sé.

Era molto rigoroso nelle proprie analisi poichè non gli sfuggivano i rischi che intravedeva

in una società secolarizzata con l’allontanamento da ciò che fino a ieri

la Chiesa ha insegnato e professato. Per questo non si è mai sottratto al confronto

di idee. La possibilità di discutere liberamente, alla pari con don Aurelio,

ha arricchito me e tutti coloro che hanno avuto la fortuna di incontrarlo. Mai banale,

sottoponeva argomentazioni che ti costringevano ad allargare gli orizzonti

della discussione fino a suscitare dubbi che neanche lui poteva sciogliere. In

piena umiltà si fermava davanti al mistero. Non era il prete che si faceva educatore

ma un uomo che posseduto da una fede incrollabile intuiva che ogni

cosa materiale può crollare, ogni mistero può restare tale, ma non Dio inteso

come Amore.

Ma torniamo a quegli anni pieni di attivismo durante i quali don Aurelio ha impresso

nella vita tranquilla della comunità jelsese un vigoroso cambiamento di

ritmo.

Don Aurelio ha capito da subito quale grande rivoluzione per la Chiesa sia stato

il Concilio Vaticano II, i cui lavori iniziati nell’ottobre 1962 si conclusero nel di cembre del 1965, e ha fatto proprie le novità che avevano un impatto più immediato

sulla comunità: il rinnovamento dei rituali liturgici, con l’abbandono di

fatto del latino e l’utilizzo della lingua nazionale, il nuovo orientamento dell’altare

verso i fedeli. Un modo concreto per una più diretta partecipazione e vicinanza

dei fedeli alla Chiesa.

Ma don Aurelio era attento anche agli effetti della ricaduta che le novità del

Concilio potevano avere nella vita civile e anche qui ha saputo incoraggiare il

cambiamento, come avesse previsto da lì a poco l’altra grande rivoluzione,

quella giovanile del 1968.

La grande casa parrocchiale era diventata il centro della vita culturale del paese

e qui si respirava un’aria nuova, un’aria di libertà.

In una sala grande troneggiava un televisore in bianco e nero, uno dei primi nel

paese, e una prima indispensabile finestra sul mondo anche con l’attenta e occhiuta

censura di quei tempi.

C’era un grande fermento: si faceva teatro, si organizzavano gite, campeggi

estivi sui suoi amati monti del Sannio e dell’alto Molise, i ragazzi e le ragazze più

grandi organizzavano corsi di catechismo, un nuovo modo di fare musica durante

le cerimonie religiose più importanti con l’introduzione di nuovi testi e di

strumenti musicali acustici, elettrici, a percussione. Su tutto vigilava don Aurelio,

vigilava appunto ma nulla imponeva, osservava e ovviamente partecipava

con le sue idee e opinioni, indicava la strada ma non impartiva disposizioni,

non dirigeva, piuttosto delegava e responsabilizzava tutti e a tutti dava fiducia.

Negli anni ’70 don Aurelio lascia Jelsi per andare incontro ad altri incarichi che

la curia di Benevento gli aveva affidato in quella città. Era molto legato al capoluogo

sannita dove era stato ordinato sacerdote nel 1952. Ed è su questo

territorio, negli anni della maturità che don Aurelio potrà completare il suo cammino

intrapreso già negli anni ’60 con l’adesione piena e completa al movimento

dei Focolarini e all’Opera di Maria. Sono tantissime al riguardo le

testimonianze di ciò che ha saputo dare alla comunità di Benevento diventando

al contempo un punto di riferimento indispensabile e costante per la comunità

sacerdotale e laica che aveva abbracciato il movimento di Chiara Lubich.

Quando gli impegni glielo permettevano don Aurelio tornava volentieri a Jelsi,

dove risiede parte della sua famiglia, amava passeggiare, intrattenersi con le

persone che incontrava, per tutti una parola, una battuta, un rapporto antico

con la comunità che si riconfermava in quegli incontri brevi e occasionali.

Ho avuto ancora occasione di incontrare don Aurelio anche se non ho più vis suto a Jelsi. Ho un ricordo molto intenso di una giornata intera trascorsa in

montagna con lui e un gruppo di amici da lui fortemente sollecitata, così, semplicemente

per stare assieme, camminare, sedersi a tavola e rinsaldare, qualora

ce ne fosse stato bisogno, quel senso di appartenenza e quel comune sentire.

Ho avuto modo di incontrarlo più volte a Milano dove vivo, quando era costretto

per l’incalzare impietoso della sua malattia a sottoporsi a visite e controlli medici.

Ciò che mi colpiva era la sua forza, il suo attaccamento alla vita e la sua

ferma volontà a curarsi al meglio e seguire puntualmente le prescrizioni mediche;

non era un istintivo attaccamento alla vita che pure c’era ovviamente ma

un non poter venir meno agli impegni presi perché mi diceva aveva ancora

tanto da fare e non poteva permettersi di andarsene ora. Lo diceva con quel

sorriso disarmante ma poi, serio, accorgendosi di aver quasi osato troppo, ricordava

a me e a se stesso che occorre alla fine rimettersi alla volontà suprema.

Anche nella malattia don Aurelio si distingueva per la sua grande dignità. Lui

maestro dell’eloquio era stato colpito negli ultimi anni da una emiparesi che gli

aveva compromesso la possibilità di articolare liberamente le parole. Ebbene,

con grande forza di carattere, è riuscito a superare anche questo nuovo ostacolo

sottoponendosi con grande impegno alle terapie riabilitative. Potevamo

immaginare una reazione diversa da quest’uomo che aveva fatto della comunicazione

una sua ragione di vita e che all’improvviso era costretto a tacere?

Per riuscire a pronunciare fonemi udibili e comprensibili il suo parlare si era

fatto piano, lento. Lo si ascoltava quasi col fiato sospeso come a volerlo aiutare

a sollevarsi da quello sforzo smisurato e le sue parole ti arrivavano dentro con

ancora più potenza.

Poco prima della morte l’ultima telefonata. Un soffio di parole piene di calore e

affetto. Ho rivisto don Aurelio sotto una teca di vetro in una semplice bara deposta

a terra nella sua amata chiesa dedicata a san Giuseppe Moscati, un medico

nato a Benevento, canonizzato da Giovanni Paolo II. Era riuscito nella

grande impresa di realizzare in mezzo a tante difficoltà burocratiche ed economiche

il suo sogno. L’edificazione della sua chiesa era negli ultimi tempi una

delle sue ragioni di vita. Lo doveva alla sua gente che nel quartiere di Capodimonte,

sviluppatosi caoticamente con problemi sociali immaginabili, non aveva

un luogo di culto, di aggregazione, né un posto adeguato alla socializzazione che

non fosse un bar o la strada. Sul suo volto il male non era riuscito a sconciare

il suo sorriso rasserenante con il quale ci ha lasciati.

Ci manca don Aurelio, ci manca come può mancare un padre, un amico, un fratello. Saremo sempre in debito con lui perché sicuramente ci ha dato molto più

di quanto abbia ricevuto.

Sono trascorsi quattro anni dalla sua scomparsa, il tempo stempera il dolore e

lo sgomento di allora e ci rende consapevoli del privilegio che ci è stato riservato

per averlo incrociato nella nostra vita.

 

Pietro Barbiero

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