DON AURELIO PULLA: MAESTRO DI VITA TRA UMILTA’ E AUDACIA (Pietro Barbiero)
La prima immagine che ho di don Aurelio è associata ad un episodio non proprio
piacevole: un giovane prete in abito talare che si adopera, con buona determinazione,
a tirarmi le orecchie.
Siamo alla fine anni ‘50: nella grande casa parrocchiale c’era una ringhiera
posta a protezione del dislivello di almeno una decina di metri tra il piano terra
e quello sottostante cui si accedeva con una ripida scalinata e noi, poco più
che bambini, utilizzavamo quella ringhiera come attrezzo ginnico per sporgerci
e dondolare nel vuoto confidando nella sola forza delle mani e delle braccia per
non cadere. Prove di coraggio e sconsideratezza che appartengono all’incoscienza
dei piccoli. All’improvviso appare don Aurelio con conseguente fuggifuggi.
Io, il meno lesto o il più impacciato, resto appeso alla ringhiera.
Ricordo, dopo avermi aiutato a tornare indietro con calma (data la situazione è
probabile che fosse più spaventato di me), il suo fermo invito a non ripetere più
quel gioco stupido. Il tutto accompagnato da una dolorosa e meritata tirata
d’orecchi. Non c’era ira nella voce di quel giovane prete, né violenza nel gesto
ovviamente, ma solo una sincera preoccupazione per il pericolo corso da noi.
Un piccolo episodio cristallizzato nella mia memoria i cui esiti evidenziavano le
peculiarità di don Aurelio: dolcezza, rigore necessario, comprensione.
Avrei avuto altre conferme negli anni successivi dell’essere speciale di quest’uomo:
curiosità, disponibilità all’ascolto e al dialogo su temi che toccavano
varie sensibilità non sempre in linea con le posizioni della Chiesa. Una disponibilità
e una vocazione al dialogo che lo avrebbe portato quasi naturalmente ad
avvicinarsi e ad essere protagonista nel movimento dei focolari fondato da
Chiara Lubich, ispirato alla dimensione quotidiana e comunitaria della carità
fraterna che si poneva l’obbiettivo del raggiungimento dell’unità fra generazioni,
fra religioni e culture diverse. All’interno del movimento dei focolari don
Aurelio troverà il naturale modo di darsi completamente agli altri e di vivere il
sacerdozio come vera comunione. L’esser semplicemente un prete in un piccolo
paese e adempiere con impegno e devozione al proprio mandato non poteva
bastare. Ma tutto ciò era già scritto nei suoi primi anni di sacerdozio a Jelsi. La
sua vitalità e il suo attivismo hanno avuto effetti salutari in una comunità fino
ad allora governata senza scosse da chi incarnava prima di lui la figura del buon
Parroco tradizionale. Cambiano i tempi, cambiano gli uomini. Don Aurelio e noi adolescenti siamo
cresciuti in mezzo ad accelerazioni improvvise nella società civile. Pur con tempi
e cautele diversi, erano anni di grande fermento anche nella Chiesa attorno al
grande dibattito che si stava aprendo con il Concilio fortemente voluto da Papa
Giovanni XXIII.
Gli echi di tali cambiamenti arrivavano smorzati e confusi. Erano gli anni dei
movimenti giovanili con le loro inquietudini e la loro voglia di rompere schemi
consolidati, il movimento pacifista, gli anni della contestazione, della musica
angloamericana, della musica dei cantautori italiani. Il boom economico degli
anni ’60 (molto attenuato) raggiungeva anche la nostra comunità.
Come si doveva interagire con tali cambiamenti? Molti si sono arroccati in un
pregiudiziale conservatorismo, per semplice timore di veder messe in discussione
certezze che si credevano acquisite oppure perché non sufficientemente
attrezzati dal punto di vista culturale.
Don Aurelio invece con riferimento al ruolo che rivestiva ha semplicemente intercettato
i cambiamenti perché era un uomo del proprio tempo, viveva nella
contemporaneità e come quegli intellettuali illuminati che fiutavano in anticipo
i grandi sommovimenti nella società, li ha in un certo senso precorsi.
Ciò non vuol dire che accettava acriticamente tutto quello che la ventata di
“modernità” ha portato e generato con sé.
Era molto rigoroso nelle proprie analisi poichè non gli sfuggivano i rischi che intravedeva
in una società secolarizzata con l’allontanamento da ciò che fino a ieri
la Chiesa ha insegnato e professato. Per questo non si è mai sottratto al confronto
di idee. La possibilità di discutere liberamente, alla pari con don Aurelio,
ha arricchito me e tutti coloro che hanno avuto la fortuna di incontrarlo. Mai banale,
sottoponeva argomentazioni che ti costringevano ad allargare gli orizzonti
della discussione fino a suscitare dubbi che neanche lui poteva sciogliere. In
piena umiltà si fermava davanti al mistero. Non era il prete che si faceva educatore
ma un uomo che posseduto da una fede incrollabile intuiva che ogni
cosa materiale può crollare, ogni mistero può restare tale, ma non Dio inteso
come Amore.
Ma torniamo a quegli anni pieni di attivismo durante i quali don Aurelio ha impresso
nella vita tranquilla della comunità jelsese un vigoroso cambiamento di
ritmo.
Don Aurelio ha capito da subito quale grande rivoluzione per la Chiesa sia stato
il Concilio Vaticano II, i cui lavori iniziati nell’ottobre 1962 si conclusero nel di cembre del 1965, e ha fatto proprie le novità che avevano un impatto più immediato
sulla comunità: il rinnovamento dei rituali liturgici, con l’abbandono di
fatto del latino e l’utilizzo della lingua nazionale, il nuovo orientamento dell’altare
verso i fedeli. Un modo concreto per una più diretta partecipazione e vicinanza
dei fedeli alla Chiesa.
Ma don Aurelio era attento anche agli effetti della ricaduta che le novità del
Concilio potevano avere nella vita civile e anche qui ha saputo incoraggiare il
cambiamento, come avesse previsto da lì a poco l’altra grande rivoluzione,
quella giovanile del 1968.
La grande casa parrocchiale era diventata il centro della vita culturale del paese
e qui si respirava un’aria nuova, un’aria di libertà.
In una sala grande troneggiava un televisore in bianco e nero, uno dei primi nel
paese, e una prima indispensabile finestra sul mondo anche con l’attenta e occhiuta
censura di quei tempi.
C’era un grande fermento: si faceva teatro, si organizzavano gite, campeggi
estivi sui suoi amati monti del Sannio e dell’alto Molise, i ragazzi e le ragazze più
grandi organizzavano corsi di catechismo, un nuovo modo di fare musica durante
le cerimonie religiose più importanti con l’introduzione di nuovi testi e di
strumenti musicali acustici, elettrici, a percussione. Su tutto vigilava don Aurelio,
vigilava appunto ma nulla imponeva, osservava e ovviamente partecipava
con le sue idee e opinioni, indicava la strada ma non impartiva disposizioni,
non dirigeva, piuttosto delegava e responsabilizzava tutti e a tutti dava fiducia.
Negli anni ’70 don Aurelio lascia Jelsi per andare incontro ad altri incarichi che
la curia di Benevento gli aveva affidato in quella città. Era molto legato al capoluogo
sannita dove era stato ordinato sacerdote nel 1952. Ed è su questo
territorio, negli anni della maturità che don Aurelio potrà completare il suo cammino
intrapreso già negli anni ’60 con l’adesione piena e completa al movimento
dei Focolarini e all’Opera di Maria. Sono tantissime al riguardo le
testimonianze di ciò che ha saputo dare alla comunità di Benevento diventando
al contempo un punto di riferimento indispensabile e costante per la comunità
sacerdotale e laica che aveva abbracciato il movimento di Chiara Lubich.
Quando gli impegni glielo permettevano don Aurelio tornava volentieri a Jelsi,
dove risiede parte della sua famiglia, amava passeggiare, intrattenersi con le
persone che incontrava, per tutti una parola, una battuta, un rapporto antico
con la comunità che si riconfermava in quegli incontri brevi e occasionali.
Ho avuto ancora occasione di incontrare don Aurelio anche se non ho più vis suto a Jelsi. Ho un ricordo molto intenso di una giornata intera trascorsa in
montagna con lui e un gruppo di amici da lui fortemente sollecitata, così, semplicemente
per stare assieme, camminare, sedersi a tavola e rinsaldare, qualora
ce ne fosse stato bisogno, quel senso di appartenenza e quel comune sentire.
Ho avuto modo di incontrarlo più volte a Milano dove vivo, quando era costretto
per l’incalzare impietoso della sua malattia a sottoporsi a visite e controlli medici.
Ciò che mi colpiva era la sua forza, il suo attaccamento alla vita e la sua
ferma volontà a curarsi al meglio e seguire puntualmente le prescrizioni mediche;
non era un istintivo attaccamento alla vita che pure c’era ovviamente ma
un non poter venir meno agli impegni presi perché mi diceva aveva ancora
tanto da fare e non poteva permettersi di andarsene ora. Lo diceva con quel
sorriso disarmante ma poi, serio, accorgendosi di aver quasi osato troppo, ricordava
a me e a se stesso che occorre alla fine rimettersi alla volontà suprema.
Anche nella malattia don Aurelio si distingueva per la sua grande dignità. Lui
maestro dell’eloquio era stato colpito negli ultimi anni da una emiparesi che gli
aveva compromesso la possibilità di articolare liberamente le parole. Ebbene,
con grande forza di carattere, è riuscito a superare anche questo nuovo ostacolo
sottoponendosi con grande impegno alle terapie riabilitative. Potevamo
immaginare una reazione diversa da quest’uomo che aveva fatto della comunicazione
una sua ragione di vita e che all’improvviso era costretto a tacere?
Per riuscire a pronunciare fonemi udibili e comprensibili il suo parlare si era
fatto piano, lento. Lo si ascoltava quasi col fiato sospeso come a volerlo aiutare
a sollevarsi da quello sforzo smisurato e le sue parole ti arrivavano dentro con
ancora più potenza.
Poco prima della morte l’ultima telefonata. Un soffio di parole piene di calore e
affetto. Ho rivisto don Aurelio sotto una teca di vetro in una semplice bara deposta
a terra nella sua amata chiesa dedicata a san Giuseppe Moscati, un medico
nato a Benevento, canonizzato da Giovanni Paolo II. Era riuscito nella
grande impresa di realizzare in mezzo a tante difficoltà burocratiche ed economiche
il suo sogno. L’edificazione della sua chiesa era negli ultimi tempi una
delle sue ragioni di vita. Lo doveva alla sua gente che nel quartiere di Capodimonte,
sviluppatosi caoticamente con problemi sociali immaginabili, non aveva
un luogo di culto, di aggregazione, né un posto adeguato alla socializzazione che
non fosse un bar o la strada. Sul suo volto il male non era riuscito a sconciare
il suo sorriso rasserenante con il quale ci ha lasciati.
Ci manca don Aurelio, ci manca come può mancare un padre, un amico, un fratello. Saremo sempre in debito con lui perché sicuramente ci ha dato molto più
di quanto abbia ricevuto.
Sono trascorsi quattro anni dalla sua scomparsa, il tempo stempera il dolore e
lo sgomento di allora e ci rende consapevoli del privilegio che ci è stato riservato
per averlo incrociato nella nostra vita.
Pietro Barbiero